I.

Linea e momenti della poesia carducciana[1]*

Un pieno avvicinamento alla poesia carducciana da parte di lettori che siano fuori delle particolari ragioni di amore delle generazioni che in quella videro senz’altro la loro poesia (oltre che una lezione di umanità e di cultura) può apparire tuttora ostacolato o limitato dalla vistosa presenza in quell’abbondantissima produzione di tanta parte di eloquenza e di esercizio letterario, dall’impressione spesso di una scarsa vibrazione lirica e di una elaborazione interiore poco approfondita: ché quella formale è viceversa fin troppo, a volte, ricercata e studiata, anche se poi, altre volte, un po’ approssimativa e sulla linea di una coerenza soprattutto eloquente piú che poetica. Impressione accresciuta sia da certe dichiarazioni del Carducci in sede di poetica (il grande artiere civile, il vate d’Italia o il tecnico che gode del suo strale ben temprato), sia da certe sue dubbie predilezioni (come la preferenza data, a volte, alla varia e colorita poesia del Monti rispetto alla «monotonia» del Leopardi[2]), nonché da certe immagini fra personali, agiografiche e critiche di un Carducci troppo atteggiato in una massiccia compattezza classica, in una corazza di sanità e di robustezza senza screpolature e senza incertezze[3].

E certo, comprendendo ab experto certi dissensi iniziali e generali di un lettore contemporaneo[4] (o contemporaneo agli anni della mia gioventú), non tacerei neppur adesso, in una posizione tanto piú aperta e comprensiva di quella giovanile mia e dei miei coetanei (quando il Carducci fu spesso una bandiera spiegata da uomini di altre generazioni e di altro gusto contro la nuova poesia italiana che noi giovani piú amavamo), che una caratterizzazione pacata e critica della poesia carducciana non può prescindere dalla energica indicazione preliminare di alcuni evidenti suoi limiti e pericoli costituzionali. Come quelli appunto del compiacimento tecnico-stilistico di ascendenza oraziana e alessandrina, e viceversa, e piú, dello scambio fra lirica ed eloquenza, fra musica e sonorità, fra pittura e illustrazione, della espansione troppo facile, di una diluizione piú in superficie, di una discontinuità di tono, di possibilità di vere e proprie cadute, anche entro componimenti ispirati, in forme declamate, discorsive, descrittive; segni anche di una struttura di pensiero e di spiritualità meno robusta, di una cultura meno sicura rispetto a quella dei grandi poeti che lo precedettero (e a cui troppo spesso è stato incautamente paragonato) e viceversa di una continuità lirica meno pura e immediata rispetto a quella dei poeti della nuova civiltà simbolistica e postsimbolistica.

Ma, indicati francamente questi pericoli caratteristici del Carducci (e della sua posizione di cultura e di poetica non piú sorretta dalla grande civiltà romantica e non ancora incentrata nella nuova civiltà decadente), errerebbe piú fortemente chi ad essi si fermasse, squalificando anche le zone e le risorse piú autentiche della poesia carducciana, confondendole con quella parte e direzione della sua produzione in cui quei pericoli si precisano e predominano (e proprio in poesie e direzioni una volta troppo accettate e ammirate) e, d’altra parte, non avvertisse come quelli pur corrispondono anche a momenti formativi nel movimento di un’intensa e complessa (e spesso complicata e faticosa) esperienza di vita e di poesia, all’impegno di una poetica non sempre ben chiarita e sicura, all’eccesso di un genuino bisogno espansivo e all’incontentabile ansia di una espressione propria e storica, complicata dalla polemica stimolante, ma anche spesso dispersiva, con altre posizioni poetiche, entro una via particolare, difficile, ricca di conati e di incertezze nel paesaggio tormentato del gusto e della cultura di secondo Ottocento.

Ed errerebbe chi, faute de mieux, si accontentasse di affermare una semplice importanza culturale e letteraria dell’opera carducciana in relazione a nuove esigenze di arte e di religione delle lettere, di disciplina critica e tecnica[5], negandone o riducendone fortemente la natura poetica, o chi, seguendo certe dichiarazioni e tendenze carducciane di varietà, di eclettismo, concludesse per l’impossibilità di recuperare un nucleo lirico personale e centrale fermandosi alla constatazione di una molteplicità di temi e di disposizioni non unificabili in un accento piú interno, in una prima intuizione originale della vita, della realtà.

Ora, senza voler forzare la poesia carducciana entro un’unificazione schematica ed astratta e in una formula taumaturgica, a me pare appunto che sotto la varietà dei temi e dei toni del pittore di paesaggio, del creatore di leggende epico-storiche, dell’innografo polemico, viva nel Carducci un fondamentale tema centrale, un modo centrale di atteggiarsi della sua sensibilità, un sentimento piú profondo della sua esperienza vitale.

Ed anche guardando allo stesso svolgimento dell’uomo e del poeta, al modulo di contrasto con cui egli visse la sua esperienza, mi è sembrato che si possa individuare una forma piú intima e sua di contrasto e di compresenza di due essenziali poli di tensione, a cui corrispondono quegli stessi nodi di contrasto piú psicologico di odio e amore, ira e pianto, amore e disamore della vita, entusiasmo e tedio, fra bisogno del cuore e attacchi al «vil muscolo nocivo», e gli stessi contrasti fra classicismo e romanticismo, fra passato eroico e sereno e presente corrotto e attediato, fra ideali e realtà inferiore, fra poesia e prosaico utilitarismo. Tale tema centrale è appunto l’essenziale sentimento carducciano dell’esistenza, nel radicale incontro e contrasto di un sentimento della vita nella sua pienezza e di un ugualmente energico sentimento della morte come totale e fisica privazione di vita, con relative componenti di orrore e di fascino, entro le varie situazioni dell’esperienza e dell’ispirazione.

Poeta del contrasto dell’esistenza terrena, il Carducci ha espresso piú direttamente questo tema in quelle poesie che, sollecitate da occasioni piú intime e dolorose, risolvono piú energicamente l’incontro sofferto ed intenso dei sentimenti della vitalità e della morte, tradotti nei loro simboli piú compendiosi e assoluti, realisticamente concreti e fantasticamente suggestivi: luce e buio, sole e ombra, suono e silenzio, calore e freddo, terra verde nel suo rigoglio primaverile e terra nera nel suo significato sepolcrale. Insomma il contrasto tematico e tonale di Pianto antico

sei ne la terra fredda,

sei ne la terra negra;

né il sol piú ti rallegra

né ti risveglia amor

che poi il poeta, in Rimembranze di scuola, ritrovava significativamente nella sua stessa prima esperienza infantile come l’aprirsi dell’animo alla pienezza della vita e della natura e il connesso insorgere immediato, entro di quella, del sentimento dell’annullamento, della totale privazione rappresentato dalla morte[6], e che, per indicarne ora solo alcune espressioni sintomatiche, tanto piú tardi si svolgeva fino all’intuizione di Ballata dolorosa, in cui il Carducci coglieva di quel contrasto e di quella compresenza la notazione piú sintetica e suggestiva: la colorazione malinconica della luce, l’istintivo frapporsi di uno schermo funereo fra il poeta e le immagini piú ridenti e fresche della vitalità naturale ed umana:

Una pallida faccia e un velo nero

spesso mi fa pensoso de la morte;

ma non in frotta io cerco le tue porte,

quando piange il novembre, o cimitero.

Cimitero m’è il mondo allor che il sole

ne la serenità di maggio splende

e l’aura fresca move l’acque e i rami,

e un desio dolce spiran le viole

e ne le rose un dolce ardor s’accende

e gli uccelli tra ’l verde fan richiami:

quando piú par che tutto ’l mondo s’ami

e le fanciulle in danza apron le braccia,

veggo tra ’l sole e me sola una faccia,

pallida faccia velata di nero.

Poesia che corrisponde sí ad una situazione particolare[7] e a una fase della tarda maturità del poeta, ma che insieme apre uno spiraglio di valore generale sulla sensibilità carducciana tanto piú fine e ricca di quanto appaia in certe sue euforie piú facili (tipo Canto dell’amore), e sul tema lirico fondamentale della personalità carducciana: il quale, con la sua interna presenza, porta una vibrazione maggiore in tutta la poesia del Carducci piú intimamente elaborata che spesso, nei suoi cicli piú densi ed alti, proprio nella piú diretta sollecitazione di quel tema, di quel contrasto, o dei suoi poli, mai assolutamente separati almeno nell’eco reciproca, ha il suo avvio e il suo impulso.

Naturalmente non si vuole con ciò risolvere tutta la poesia carducciana nella diretta e monotona espressione di quel tema (che è poi esso stesso svolto e variato e approfondito nelle diverse fasi della lunga esperienza espressiva del poeta), né certo si vuole immergere tutto Carducci in un’unica aura elegiaca e funebre[8] (che è uno solo dei toni che da quel tema si sviluppa) negando e trascurando quanto di fresco, di lieto, di sereno, di vitalmente energico è nella sua visione poetica, in certi quadri epico-storici, in certi suoi squarci di paesaggio luminoso, in certi suoi ritmi lieti e impetuosi (per non dir poi della ricchezza di toni di humour della sua prosa matura).

Ma certo anche i momenti e i toni poetici piú vari e liberi e vitalmente espansivi acquistano uno slancio piú profondo, un risalto e una luce piú intensa (e insieme un controllo piú intimo) quanto piú sottintendono la presenza di quella centrale base lirica, di quel sentimento primo entro il quale l’aspirazione alla serenità, al virile esercizio di valori vitali, di ideali umanistici (piú aspirazione intensa che pacifico e sicuro possesso) si fa piú vibrante ed energica proprio in relazione alla istintiva consapevolezza della totale privazione che ne rappresenta la morte, il dileguarsi «via dagli affetti, via dalle memorie», dal caldo, luminoso regno della terra e del sole, a cui il poeta rivolge il suo sguardo appassionato, il suo interesse piú vero, vigorosamente elementare, terreno.

Contrasto che si ricollega anche, nelle sue peculiari forme di elementarità incapace di veri chiarimenti e approfondimenti filosofici (malgrado le velleità, gli sforzi entro una cultura filosofica cosí incerta), ad una crisi del tempo, fra gli ideali e i sistemi dello spiritualismo e storicismo idealistico romantico e i tentativi del positivismo e del naturalismo. E che poeticamente sorregge dall’intimo le tendenze espressive del Carducci, le gamme piú genuine dei suoi colori (tra il «fosco», il «cinereo», il «grigio» e il «verde», il «roseo», il «limpido») nella loro bipartita tensione e nei loro incontri ed impasti, le direzioni dei suoi ritmi fra il volante, l’impetuoso, il cantato, e l’incisivo, il grave, l’echeggiante e pausato. Mentre, a suo modo, stimola lo stesso svolgimento dinamico e dialettico (ma di una dialettica mai interamente risolta se non nella realizzazione poetica raggiunta nei momenti piú intensi) di tutta la vita e di tutta l’esperienza artistica del Carducci, impostata fin dagli inizi in questo modulo di contrasto fra un primo abbandono espansivo romantico e un volitivo sforzo di classico possesso della propria realtà e dell’arte.

A voler energicamente schematizzare il diagramma della prima formazione carducciana si può appunto individuare anzitutto una iniziale esuberante attività espressiva di piú ingenua apertura a sogni e visioni in chiare forme romantiche (sull’eco delle prime letture: Berchet[9], romanzi storici, ballate carreriane, traduzioni ossianesche e byroniane), a cui tanto piú tardi il Carducci tornerà a guardare con simpatia e volontà di recupero di modi legati per lui alla sua prima scoperta della poesia, alle prime manifestazioni della sua tendenza al quadro in movimento, allo spicco epico-realistico delle figure accentuato dal colore intenso, dal ritmo volante ed energico:

... e sovra il ponte

giganteggia un cavalier:

nero ha l’elmo su la fronte

e il palvese ed il cimier.

Ma questa prima fase (fra ’49 e ’52) piú apertamente espansiva e romantica (mossa fra scatti eroici e languidi, fra impeti irrequieti vitali e abbandoni malinconici, in cui poi lo stesso Carducci coglierà i segni di una prima testimonianza del suo amore e «disamor della vita») appare presto superata da un piú vasto e consapevole esercizio eclettico con prevalenza crescente della esemplarità dei classici latino-greci e della tradizione classica italiana fino alla zona piú sollecitante di Alfieri, Foscolo, Leopardi: esercizio stilistico-retorico che insieme si appoggia ad un preciso momento volitivo di poetica, alla ricerca di una propria figura di poeta virile e sdegnoso che vuole assicurare se stesso della propria capacità e volontà («E posso e voglio», afferma nel sonetto del ’53 al Parini, in una serie di sonetti dedicati ai poeti-guida in netta chiave di poetica etico-tecnica) e precisare anzitutto la sua originalità e la sua posizione nei confronti della letteratura contemporanea scaduta nella rêverie disorganica e morbosa, priva di ethos e di stile, mancante del senso della realtà degli ideali, della serietà espressiva.

Periodo in cui il Carducci, mentre coglie, fra acquisto di maggiore sicurezza sintattica e metrica e di maggiore impegno sulla incisività della parola, spunti di tendenze piú sue, dal gusto del paesaggio all’impostazione plastico-realistica di certe immagini di donne amate, intona questa sua attività a una prevalente preoccupazione polemico-programmatica che storicizza e rafforza la sua posizione in un crescente integrarsi di aspirazioni etiche, politiche, estetiche (l’attacco al «secoletto vil che cristianeggia» e ai «romantici traditori della patria»), irrobustisce la consapevolezza della propria personalità nell’aspetto del carattere forte e anticonformistico mentre vi acquista insieme un vigoroso senso della serietà della letteratura e dello stile (il «maledetto», l’«infame» stile alla cui perfezione anche nelle lettere piú confidenziali disperatamente tende), della elaborazione espressiva sudata fra «ingegno» e «studio», magari fino all’esasperazione del rifiuto del «furore poetico»: «né io credo al furore poetico, sí penso col Giordani non vi sia altro furore che l’ingegno, altra ispirazione che dallo studio»[10].

E se, in questo prevalere della polemica e del programma del classicismo a oltranza, è da considerare comunque anche la presenza di una spinta intima pur nella piú pedantesca ricerca di lingua e di tecnica, di un accento appassionato proprio di chi in quella religione delle lettere e dei classici esprimeva il suo bisogno di un’affermazione di realtà piú concreta e di ideali contrapposti al basso presente e mirava a vincere dentro se stesso momenti piú deboli ed espansioni piú facili, è anche evidente che la posizione raggiunta fra gli scritti polemico-programmatici e le Rime di San Miniato era insufficiente, parziale (oltre che culturalmente angusta e provinciale) rispetto alla maggiore complessità intima che veniva crescendo nell’animo carducciano e che non poteva esser tutta immessa in quelle forme espressive troppo rigide, entro quella concezione della poesia troppo affidata solo all’ingegno e allo studio.

Cosí, dopo le Rime, se da una parte, sull’onda dell’entusiasmo patriottico, il Carducci si abbandonava a quella «rimeria politica» del 1859-60 (il VI libro di Juvenilia) piú cantabile, frettolosa, approssimativa, quasi pratiana, dall’altra, sullo stimolo di un’occasione piú personale e decisiva (il suicidio del fratello Dante), egli stentava a sistemare organicamente nelle forme dello «scudiero dei classici» quei motivi piú intimi di elegia, di contrasto vita-morte che cercavano faticosamente un’espressione nei numerosi componimenti scritti per quell’avvenimento luttuoso[11]. Ed essi trovavano solo nel finale del sonetto XXII del I libro di Juvenilia (aprile 1858) un primo esito piú sicuro nell’interessante contrapposizione del giorno di letizia pasquale a cui il fratello aveva negli altri anni pienamente partecipato e l’immagine brusca e dolorosa, «fisica», della sua totale esclusione da quella vita rigogliosa e primaverile:

Come quel giorno, il borgo oggi risona

e si rallegra del risorto iddio,

ma terra copre tua gentil persona.

Prima rivelazione, e con incontro di parole cosí significative («rallegra», «terra» che tornerà con ben altro sviluppo e risultato in Pianto antico), di quel contrasto lirico fondamentale appena balenato, come spia di un frammentario approfondimento nell’interno del proprio sentimento della vita, in un periodo ancora immaturo e faticosamente formativo. Nel quale, come dicevo, è importante notare come la sicurezza dello «scudiero dei classici» fosse piú apparente che reale, piú provvisoria che definitiva, sí che un po’ tutta la produzione che si era realizzata a quella insegna superba viene sentita chiaramente come insoddisfacente[12] insieme alla «rimeria» politica e patriottica del ’59-60, entro un largo moto di scontentezza che caratterizza i primissimi anni bolognesi, cosí importanti per la incubazione della personalità e della poesia carducciana.

Anni tristi, solitari e irrequieti, in cui il Carducci sembra quasi portato a voler ricominciare tutto da capo, in una fase singolare di velleità e di delusioni, preso fra il rammarico della mancata partecipazione all’azione risorgimentale, lo sdegno per il semplice «scribacchiare», il bisogno di chiarirsi una fede ideologico-politica piú salda e adeguata alle sue esigenze cresciute nel contatto con un ambiente piú vivo e attivo di quello toscano dell’ultimo periodo granducale, e l’ansia di una poesia piú moderna e piú sua, a cui aspira e di cui a volte si sente incapace rifugiandosi nel rimpianto della piú libera espansione dei suoi primissimi anni romantici. E si rileggano, in appoggio a quanto qui si dice, e come esempi di una disposizione di quegli anni che meglio si traduce nel ritmo a sbalzi e contrasti di tutto l’epistolario del primo periodo bolognese, la lettera al Pelosini del 2 maggio 1861[13]: «Svaní l’altero inganno della gioventú prima e oramai mi trovo restituito al nido per cui la natura mi avea fatto e fuor del quale svolazzai un poco nella prima sfuriata, passerotto mattugio...»; quella alla Grace Bartolini del 26 luglio ’61[14]: «perché io, signora, sento che ero nato a far qualche cosa e sento che non farò nulla. E quel che sono ora non solo non mi contenta, ma mi fa disprezzare amaramente me stesso... E l’esser professore a me non fa nulla, anzi è cosa che mi ammazza, mi disanima, è un giogo che mi vieta di levare il mio capo libero verso il sole»; quella al Chiarini del 24 novembre ’61[15]: «E ogni dí piú mi sento sminuire l’ingegno e l’animo, punizione del mio mercimonio... Qualche volta però mi risento e cerco la sacra bellezza dell’arte antica. Come? riescemi vederne almeno almeno un sottilissimo raggio? Non so...»; o quella ancora al Pelosini, del 27 febbraio ’62[16]: «Io meno la solita vita: di studi critici faticosissimi e di parossismo impotente a far qualcosa di mio, qualcosa di non volgare come ho fatto finora. Ma l’ingegno mio è poco: e soprattutto non poetico: sempre piú me ne accorgo, ne son certo. Io era fatto per la vita aperta e rumorosa dell’azione... La mia poesia, se poesia s’ha da chiamare, è aspirazione al di fuori». Abbandoni e sobbalzi cui si intrecciano sempre piú intensamente impeti di ribellione politica e sociale di tipo anarchico-giacobino. Si dichiara «per natura nemico di ogni ordine costituito, partigiano dell’anarchia assoluta nella quale vede la condizione della vita vera»[17]. E si firma «Anarkos» e vorrebbe «cannoneggiare» la borghesia[18], responsabile volontaria della «schiavitú» della plebe[19], e sospira la rivoluzione europea «nazionale, politica, sociale»[20]. E nel ’64 parla di «noi proletari»[21], desidera di «appestare col fiato questa infame società che io non potrei odiare tanto quanto ella merita»[22] e chiude una lettera al grido: «Vive Marat! A bas les girondins et toutes les gens de bien».

E questa irrequietezza, questo arrovellarsi fra vita e letteratura, si traducevano, oltre che negli sbalzi febbrili di umore nelle lettere piene di impeti di ribellione quasi anarchica contro tutto e tutti, contro la convenzionalità letteraria e civile, e di abbandoni da «pover’uomo» soffocato dal peso della cattedra e della famiglia, anche in abbozzi di poesie nervosamente abbandonati e ripresi, in tentativi di ricerca di nuova materia poetica piú moderna, piú reale, piú immediata: temi sociali (Carnevale, In morte di bella e ricca signora, La plebe) in cui «Anarkos» sfogava il suo ribellismo e provava espressioni di acceso e sin truce realismo; temi politici (Per la spedizione del Messico, Dopo Aspromonte) in cui il cantore monarchico-unitario del ’59-60 si cambiava nel «bardo» democratico nutrito delle nuove letture di Proudhon, Michelet, Quinet, Hugo; temi epitalamici in cui il poeta cercava di dar voce, in forme di classicismo piú irrorato di realismo moderno, alla sua aspirazione di sanità naturale, di vita piena ed intera.

E se questa crisi fermentante di novità per tutta la personalità del Carducci sembra risolversi definitivamente con un impeto gioioso e combattivo nell’Inno a Satana[23], nel ’63, in realtà, negli anni di Levia Gravia continuano a spiegarsi, e con piú forza, elementi e tendenze del mondo poetico carducciano in formazione, fino al limite di una necessità e difficoltà di scelta, verso la fine di quel periodo, tra le varie vie iniziate: la via polemica dell’Inno a Satana, quella piú intima del tema sepolcrale-familiare svolto in una crescente disposizione di memoria nostalgica (la notevole prova del sonetto Per val d’Arno, del ’66[24]), quella dell’amore per la poesia e della rievocazione dei poeti del passato e del loro mondo suggestivo, stimolante e consolatore, iniziata con il sonetto Virgilio e culminata con la vasta e complessa composizione di Poeti di parte bianca[25] appunto in quell’anno 1867 in cui insieme il Carducci abbozzava Idillio maremmano e impostava la poetica giambica, che per alcuni anni avrebbe unificato gli elementi piú omogenei, vivi entro quelle tendenze diverse.

Ché, a ben guardare, anche nelle poesie piú lontane della meditazione intima o della poesia sulla poesia urgeva un comune riferimento polemico col presente, che chiedeva sempre piú espressione, cosí come gli elementi di realismo involti nella degustazione piú letteraria di Poeti di parte bianca tendevano ad estrinsecarsi in una rappresentazione piú diretta, e gli odi e gli amori di quei poeti esuli troppo parlavano in nome del poeta moderno sempre piú sensibile ai suoi impegni umani e storici che lo affiatavano alla vita, spezzavano il suo isolamento di letterato, venivano incontro ad un ideale di poesia etico-civile che, in questo periodo formativo, contribuisce comunque a rafforzare i lati di vigore della personalità e del linguaggio del Carducci e la sua fede nella propria missione poetica.

Fu la breve, appassionata esperienza di Giambi ed Epodi, viva soprattutto fra il ’67, l’anno della «esasperazione» dei democratici italiani (come lo chiamò l’Omodeo[26]) fra Custoza, Lissa, Mentana, e il ’70, l’anno di Porta Pia e della sconfitta del cesarismo napoleonico a Sedan. Esperienza viva nel rendere (come disse poi il Carducci[27]) un momento storico «rapido e sfuggente», «antipatico e simpatico» all’artista, e nell’esprimere in quell’odio e amore il ritmo di un contrasto piú intimo che non era ancora maturo per una intera espressione su piano lirico e quel bisogno di realtà di cui il Carducci non aveva ancora ben intuito in sé le condizioni piú genuinamente poetiche.

Certo quella poetica dell’efficacia polemica (alimentata anche dagli esempi stimolanti e rischiosi del Barbier e dell’Hugo degli Châtiments, con cui il Carducci superava la base piú angusta del suo giovanile satireggiare toscano), dei versi «fatti a mo’ di scossa elettrica» («minammo il Vaticano», «la nostra patria è vile»), conduceva all’eloquenza e, isolata in se stessa, apriva un vicolo cieco per la vera poesia. Ma si trattava di un’eloquenza pur salutare in questo periodo formativo, ed essa aiutava il poeta a vincere le sue incertezze, a tentare audacie espressive (a volte spinte fino alla volgarità e alla brutta prosa: «il vecchio prete si fregò le mani», «ci pensi la questura») che avrebbero comunque reso piú libero e spregiudicato il suo linguaggio.

E, mentre quello sfogo impetuoso importava anche una depurazione per la successiva poesia, liberata cosí da moti pratici che pur chiedevano una loro intera espressione, esso, nel suo momento esplosivo, prima di raggiungere un equilibrio piú facile di sola efficacia oratoria, involgeva e stimolava in sé elementi poetici sino allora piú incerti o mediati troppo letterariamente.

Si pensi a certi quadri storici come quello che apre Le nozze del mare, o al paesaggio novembrino con quel cadere ossessivo di foglie «gialle, cineree, bianche», o all’inizio dell’epodo Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, o all’immagine macchiaiola del Corazzini in caccia, ma soprattutto al primo epodo Agli amici della val Tiberina, a quel suo ritmo baldo e sicuro, a quel colore largo e denso, a quel canto virile e spiegato a pieno petto:

Pur da queste serene erme pendici

d’altra vita al rumor ritornerò;

ma nel memore petto, o nuovi amici,

un desio dolce e mesto io porterò.

Tua verde valle ed il bel colle aprico

sempre, o Bulcian, mi pungerà d’amor;

Bulciano, albergo di baroni antico,

or di libere menti e d’alti cor.

D’altra parte, sotto il contrasto giambico con un presente di assoluto disvalore (Vaticano, monarchia, cesarismo napoleonico, destra storica, conservazione feudale, letteratura moderna della decadenza romantica) in nome di antichi e nuovi valori fortemente legati a un moto e a una speranza di progresso vivi nell’onda impetuosa di un concreto momento storico, vibra l’appassionata tensione poetico-personale, di cui, specie proprio nel ’70-71 (fra l’appagamento parziale e la delusione della conquista di Roma), affiorano le note piú intime, meno occasionali.

Quali si avvertono, in forma di piú intensa aspirazione e nostalgia di un mondo luminoso e pieno contro una realtà corrotta e attediata, nel centro dell’epodo Per le nozze di Cesare Parenzo:

O monti, o fiumi, o prati;

o amori integri e sani;

o affetti esercitati

fra una schiatta d’umani

alta gentile e pura;

o natura, o natura;

da questo reo mercato

di falsitadi, anelo

a voi come piagato

augello al proprio cielo

dal fango ond’è implicata

l’ala al sereno usata.

O nell’eccitato Prologo del ’71 che reinterpreta piú personalmente e poeticamente le parole della polemica politica e, fra speranze di «nuovi amori» e la dolorosa indicazione degli «insonni accidïosi / tedi che fuman da la guasta età», conduce alla scoperta di una zona di memoria appassionata e dolente da cui scaturisce un primo elemento del paesaggio maremmano («dove una torre ruinata so») non solo come la scoperta di un pittore, di un occhio maturo che sa trovare i suoi luoghi congeniali, ma come l’intuizione da parte di un poeta di un proprio mondo lirico meglio chiaritosi e ora premente sotto l’eloquenza che non è piú indispensabile a stimolare e sorreggere una piú incerta e confusa urgenza poetica.

Dalla cronaca combattiva il Carducci scende ora con nuova forza alla sua storia intima da cui, sullo stimolo di occasioni propizie e piú sue, egli enuclea proprio il suo tema lirico piú vero (lo spunto di avvio vien di nuovo dall’urto con il dolore e la morte) nel primo denso ciclo poetico che si svolge, nelle Rime nuove fra ’70 e ’71, da Funere mersit acerbo, che segna piú nettamente il passaggio da una ripresa della nobilitazione ortisiana e leopardiana del tema del fratello suicida alla piú schietta situazione poetica del figlioletto Dante fra il desiderio di luce e di vita e l’ombra sepolcrale che l’avvolge, a Notte d’inverno con il suo grido finale: «o notte, o inverno, / che fanno giú ne le lor tombe i morti?» che approfondisce, fra autobiografia e poesia, uno sguardo ossessivo e affascinato nella fredda realtà fisica della morte-tomba. Fino a Pianto antico che porta il tema ad un esito, a suo modo, perfetto, realizzandone l’essenziale contrasto tonale in un quadro lineare e vibrante, nella coincidenza alta dell’aulico e del popolare, fra linea di grazia greca e settecentesca e ritornello romantico sommessamente cantato e ricco di risonanza patetica.

Mentre poi nelle contemporanee Rimembranze di scuola un piú consapevole sviluppo del tema ne conferma la consistenza profonda nell’animo e nella meditazione del poeta, che annoda saldamente la zona poetica dell’infanzia e della memoria all’esperienza, prima e simultanea, della pienezza della vita e della pienezza della morte.

Sicché, quando nel ’72 il Carducci tornava a stimolare la sua poesia ancora in un impeto di volontà e di poetica (sperando di alimentare piú intimamente una ripresa di poesia polemica), poteva in realtà ben superare la base eloquente e combattiva dell’epodo Ripresa, Avanti! Avanti! nell’inno elegiaco trionfale e dolente della terza parte di quel componimento, in cui il «sauro destrier de la canzone» vien confortato alla coscienza della sua originalità e della sua nuova forza proprio dal ricordo della adolescenza selvaggia e malinconica del poeta. E la poetica si svolge in espressione esemplare di una nuova poesia nata dall’animo che riconosce intuitivamente se stesso e le proprie risorse liriche e fantastiche (e il «tu» eloquente si fa lirico, il colloquio piú esterno col «sauro» si fa colloquio interiore), spiegata nel paesaggio maremmano squallido e pieno, teso da una malinconia senza languore, da una furia senza enfasi, selvaggio, vitale e nostalgico, realizzato con un linguaggio cromatico, concreto e vibrante di lontananze fantastiche e meste, che si intona intimamente all’espansione della tendenza realistico-elegiaca del Carducci, al suo sentimento dell’energia e dello squallore, della vitalità piena e della desolazione di una privazione struggente.

E sono, su questa direzione, i tocchi sicuri delle «vedove piagge» del mar toscano, del «nubilo inseminato piano», dei «colli arsicci e foschi», degli «assetati caprifichi» tormentati dal «languido sirocco», della torre solitaria e in rovina con la sua «lunga ombra di tedio», e, sulla via della memoria evocatrice e creatrice, la forza intera del quadro epico-malinconico di Ugolino che bussa, sconfitto, alla «porta nera» del suo castello maremmano e della scena che chiude quell’alta sequenza poetica nel paesaggio infiammato del tramonto, eccitato dal famelico gridio dei falchi, ma insieme allietato da una impressione piú fresca e soave: la quercia che «verdeggia e bisbiglia».

Or (dolce a la memoria) una quercia su ’l ponte

levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte

novella il cacciator

quando al purpureo vespero su la bertesca infida

i falchetti famelici empiono il ciel di strida

e il can guarda al clamor.

Sulla piú assicurata base lirica personale la stessa capacità di rappresentazione di paesaggio e di quadro epico-storico (tendenze caratteristiche della fantasia carducciana, ma pronte a decadere in illustrazione là dove non corrisponde ad esse la vibrazione piú intima) può ora cosí interamente spiegarsi, come avviene in Sui campi di Marengo, notevole riprova sincrona di questa piena maturazione di visione creatrice, qui svolta saldamente fra l’inizio cupo e grandioso e il finale epico e gioioso squillante, con un impiego ricco ed efficace di toni nelle varie scene evocate dai diversi personaggi dell’ampio affresco-ballata, fino a quella incantevole del castello nordico in cui «Tecla sogna al lume de la luna» mentre «dal Reno il canto de gli elfi per la bruna / notte va».

Dove si può cogliere anche la presenza di una sollecitazione della sensibilità carducciana, ormai cosí ricca ed aperta, da parte di quella lettura e traduzione feconda, proprio in questo periodo, di Heine e dei romantici tedeschi (Uhland, Platen, Schiller, il Goethe delle ballate, e poi piú tardi qualche stimolo intenso di Hölderlin[28]) che, mentre sorreggeva – al di là della giovanile e fondamentale esperienza delle romanze e ballate berchettiane e carreriane – il gusto carducciano di quadro in movimento, di ritmo volante ed echeggiante, di recupero della vivacità popolare (caratteri particolarmente evidenti in Rime nuove), contribuiva ad aumentare la vibratilità nervosa del sentimento, la tensione irrequieta al sogno, l’intensità dello scavo autobiografico. Magari con il rischio di certe forzature di ironia romantica, di certe tonalità macabre mutuate dal peggior fondo heiniano.

E all’irrequietezza e tensione dell’animo e della fantasia ormai in pieno movimento veniva anche a rispondere, sempre nel ’71-72 (anni decisivi per lo sviluppo della poesia carducciana), l’accendersi della passione per Lidia: esercizio di un affetto reale, esaltante e tormentoso, che assicurò al poeta un’esperienza importantissima di personale vita di passione e di sensibilità, cosí abbondantemente testimoniata da quel ricchissimo documento – fra vita e poesia – che è l’epistolario di quegli anni e la cui conoscenza tarda riavvicinò alla personalità carducciana tanti lettori moderni svogliati dalla iconografia ditirambica del leone maremmano, del vate della terza Italia.

Proprio quelle lettere anzitutto ci assicurano piú energicamente come il fondo vero dell’animo del Carducci fosse sí forte, virile, ma insieme irrequieto e nervoso, tormentato e sensibile, scosso da sbalzi violenti di umore fino ad una ipersensibilità addirittura metereologica, assetato di vita, di amore, di poesia, di luce, e pronto a immergersi intensamente – nella privazione di tutto ciò – nella depressione, nel tedio, nel sofferto sentimento del freddo e del buio, carichi di immediati, immancabili riferimenti allo stesso contrasto del sentimento dell’esistenza fra ansia e possesso di piena vitalità e prefigurazione quasi ossessiva, e desiderio anche, della morte.

A parte alcune dichiarazioni di consapevolezza degli «alti e bassi» dell’animo «determinati dal di dentro e dal di fuori»[29], le lettere a Lidia contengono continue prove dei violenti sbalzi di umore e proprio della ipersensibilità «metereologica» del Carducci, a volte con bruschi capovolgimenti di stato d’animo nel giro di una stessa giornata[30] e piú spesso con aperti riferimenti della letizia o del tedio alla giornata assolata o umida e grigia. Ed è qui che i simboli essenziali del sole, della luce e del buio, del freddo, del colore cinereo del cielo invernale maturano la loro interna tensione nelle ore sofferte o godute della giornata concreta, prima di esprimersi in parole poetiche, tra sensazione fisica e sentimento lirico.

Si ricordino almeno, sull’avvio della traduzione poetica, spunti epistolari-diaristici come questi: «Già l’anima mia è triste e inerte come questa umida e nebbiosa giornata. Vi riscriverò meglio in una bella giornata che il sole faccia capolino»[31]; «Il grigio umido dell’autunno mi penetra le ossa e le fibre, e il dolore e la noia scroscia monotona nel mio cervello e nel cuore come la pioggia di fuori»[32]; «Piove, è umido, il cielo è simile alla terra e la terra a una tomba: ed io aspiro al tuo cuore e alle tue braccia, alle tue dolci braccia. Com’è umido e freddo e cinereo tutto! Tu manchi o dolce raggio...»[33]; «La terra era fango e il cielo colore del fango. Gli alberi correvan via con i rami spogli brulli ritti verso il cielo, quasi braccia di costernati o d’imprecanti... Oggi la giornata è bellissima: il cielo turchino, puro, terso come se fosse stato lavato: splendido il sole»[34]. Moltissime son poi in queste lettere le analogie fra sole e poesia, fra sole e grecità.

La passione per Lidia, con il suo svolgimento di gioia e di tormento, veniva ad inserirsi cosí nella essenziale dinamica e dialettica dell’animo carducciano accentuandone e accelerandone le alternanze, l’aprirsi e oscurarsi violento della felicità, le impennate orgogliose dell’uomo teso allo spiegamento dei suoi sentimenti e della sua forza matura, all’affermazione dei suoi ideali di umanesimo romantico-naturalistico, e insieme gli impeti dolenti e sin tetri con cui egli constata la difficoltà di un pieno possesso della realtà e di se stesso e piomba nella sensazione cupa della sua solitudine, del fallimento delle sue illusioni, e si rifugia ansioso fra i morti che soli non tradiscono: «il mio cuore è coi morti», il grido che erompe piú volte nelle lettere di questi anni e che, confortato da alcuni versi di Hölderlin, condurrà, in una linea di interna meditazione poetica, da Brindisi funebre a Nevicata[35].

Tutto l’animo carducciano viene cosí piú fortemente scosso e sollecitato ad esprimersi e insieme (in quei modi di arricchimento e di intorbidamento che son tipici delle crisi carducciane), mentre la sua fantasia si fa piú alacre e fervida e cresce la consapevolezza della propria maturità, si fan luce anche componenti nuove di sensibilità voluttuosa, di fantasticheria mistico-erotica[36], si aprono elisi apollineo-amorosi. Con tutta una nuova ricerca di squisite eleganze e un rilancio particolare del suo ideale neoclassico, appoggiato ad una nuova ammirazione del Foscolo[37] e dello Chénier e a una piú impegnativa affermazione del suo umanesimo come «naturalismo pagano» che chiede una forma espressiva piú ardua e aristocratica, piú plastica e ritmica e pur sempre romanticamente animata e vibrante (la strofa difficile, ma «la strofe che ha il battito del cuore»[38]).

Ed è cosí che in mezzo allo sviluppo delle Rime nuove, che proprio in questi anni giunge alle sue mete piú alte, già con le Primavere elleniche, cosí significative da tal punto di vista e cariche di una sensibilità voluttuosa che sfiora l’estetismo, si insinua una nuova tendenza espressiva che apre presto la via alle Odi barbare, al loro bando in Preludio, ai loro primi esperimenti in Su l’Adda e in Ideale.

E sembra quasi a questo punto provocarsi un pericoloso ingorgo di tendenze contrastanti. Ma in realtà la forza matura del Carducci lo supera nella effettiva realizzazione poetica e in definitiva pur si arricchisce nelle sue linee centrali di questa nuova spinta di poetica con un nuovo forte senso della serietà stilistica, del lavoro dell’artista, che è poi il senso piú vivo di Congedo o Il poeta (l’altro bando di poetica caratteristica di questo momento di volontà chiarificatrice del proprio ideale estetico), e la poesia di Rime nuove seguita, fra ’73 e ’75, a svolgersi energicamente in uno dei suoi cicli piú alti guadagnando ancora in forza intima e in nitidezza espressiva, in ricchezza di toni e di sfumature, di piú complessi impasti di ritmo e linguaggio. Mentre nelle poesie piú direttamente amorose sembra isolarsi il peso piú forte di certo estetismo, di certe voluttà troppo floride e rosee, di certo clima mistico-erotico, fra paganesimo ed echeggiamenti un po’ orecchiati di posizioni poetiche piú moderne, come è il caso di assimilazione baudelairiana nelle Vendette della luna.

Ché, alla fine, l’amore è piú un incentivo di intensificazione dell’animo e della fantasia che non un autonomo tema poetico carducciano ed esso soprattutto stimola un nuovo rafforzamento intimo dell’espansione vitale e del tormentoso sentimento della sua privazione. Come avviene nel ciclo centrale di Rime nuove che ha il suo avvio ancora una volta nello sviluppo di elementi intensamente elegiaci e drammatici, fra Nostalgia con il suo nuovo scorcio potente del paesaggio maremmano

(Dove raro ombreggia il bosco

le maligne crete, e al pian

di rei sugheri irto e fosco

i cavalli errando van),

Brindisi funebre

(Beviamo, beviamo ai morti;

con essi sta il mio cuor),

Tedio invernale che esaspera il contrasto fra un mondo classico-epico di luce e di sole e il cupo squallore di una giornata invernale, concreto simbolo di un presente scaduto ed arido:

Ma ci fu dunque un giorno

su questa terra il sole?

Ci fûr rose e viole,

luce, sorriso, ardor?

Ma ci fu dunque un giorno

la dolce giovinezza,

la gloria e la bellezza,

fede, virtude, amor?

Ciò forse avvenne ai tempi

d’Omero e di Valmichi,

ma quei son tempi antichi,

il sole or non è piú.

E questa ov’io m’avvolgo

nebbia di verno immondo

è il cenere d’un mondo

che forse un giorno fu.

Ma l’acme poetica è questa volta una rappresentazione di vitalità, prima tentata nel quadro centrale di Davanti San Guido in direzione di un paesaggio meridiano panico in una Maremma in verità troppo classicizzata (e la poesia, in questa costruzione complessa e insidiata da confidenze troppo discorsive, vibra piú alta soprattutto nel recupero nostalgico della perfetta visione di nonna Lucia e nell’incanto fiabesco-realistico della sua novella cosí significativa per un passaggio piú vero e profondo dal personale al leggendario), poi piú sicuramente realizzata nella sua totale trasposizione nell’affresco storico-leggendario di Faida di comune, vicina per impostazione alla contemporanea Canzone di Legnano, ma tanto piú intensamente e continuamente poetica di quella, che non è priva di un chiaro eccesso di sonante e di atteggiato, specie nella parlata di Alberto da Giussano. Mentre Faida di comune ha (pur entro certi limiti ineliminabili di letterarietà e di ricostruzione storica troppo compiaciuta) una forza piú fresca, lieta e sensibile, nasce da un tocco insieme piú elastico e lieve, nella fusione e varietà di toni che trapassano senza sforzo dal fiabesco piú aperto

Vi si sente a mezza notte

la real caccia stormire,

dietro ad una lepre nera

un caval nero annitrire

a un’epicità essenziale e luminosa

... e a Pisa, in ponte,

tra gli albor crepuscolari,

era accesa una candela

di sol dodici denari.

Stava presso la candela,

tremolante nel bagliore,

co’ pennoni del comune

a cavallo un banditore,

da un leggiadro e nitido idillio naturalistico

bacchian li uomini le rame,

le fanciulle fan corona,

e di canti la collina

e di canti il pian risona

alla letizia colorita e pura della cavalcata dei pisani in un paesaggio cosí concreto e suggestivo:

Va co ’l sole di novembre,

va la fiera cavalcata.

Va per grige irsute stoppie

da la brina inargentate,

va per languidi oliveti,

va per vigne dispogliate.

Forte odora per le ville

la vendemmia già matura...

Poesia in cui il popolare e il letterario si son fusi in una sostanziale unità artistica intera[39] e la letizia vitale si è risolta con ben altra resa poetica che non è quella del Canto dell’amore, ultima espressione di questo ciclo in forme troppo facilmente espansive che ne denunciano l’esaurimento piú intimo, la prevalenza del declamato entro una situazione sentimentale e poetica che ora volgeva di nuovo ai toni della malinconia e insieme ad un lavoro tecnico piú arduo e aristocratico.

È qui infatti che si intensifica lo sviluppo delle Barbare che ormai van prevalendo come direzione fondamentale dell’espressione poetica carducciana, anche se, dirò subito, con uno svolgimento spesso faticoso e discontinuo quanto a intensità lirica e a risultati effettivi, ché troppo spesso prevalgono il gusto del tecnico, dello sperimentatore di metri e di linguaggio, o l’illustrazione piú occasionale del viaggiatore letterato che cerca ad ogni costo di trasferire in una poesia cesellata impressioni e meditazioni piú diaristiche da «viaggio in Italia». E troppo spesso si avverte il peso di una cultura non profondamente assimilata, corrispondente a velleità culturali poco organizzate e a miti storiografici macchinosi e forzati.

Si pensi, a quest’ultimo proposito, al tentativo di recuperare la suggestione del mondo egiziano in Alessandria o, in All’Aurora, del canto vedico con il suo implicito riferimento a quel mito della razza ariana su cui il Carducci di questi anni fantasticò a rinforzare torbidamente con ragioni di «razza» la sua contrapposizione fra la civiltà classica, la tradizione italiana umanistico-laica e l’intrusione mortificante della componente semitico-cristiana[40]: contrapposizione che poi tanto pesa su Alle fonti del Clitumno, al di là del bellissimo inizio, insieme all’enfatico excursus nella storia d’Italia preromana e romana.

O si pensi all’escogitazione della «nemesi storica» che, pur nel suo riferimento ad un oscuro pathos della storia, appesantisce il motivo piú poetico della compassione delle giovani vite innocenti e sacrificate dalle colpe degli avi (una ripresa capovolta della «provvida sventura» manzoniana?) e della nostalgia dolente di giorni radiosi travolti in catastrofe, in Miramar o in Per la morte di Napoleone Eugenio.

E si tenga conto degli aspetti della lenta evoluzione (e involuzione) politica carducciana che indulge sempre piú ai miti nazionalistici e a volte xenofobi in toni piú celebrativi ed enfatici, con quel culto della romanità che (quando non si dispone in un ritmo piú vero di intensa nostalgia e di epica triste[41]) giunge appunto alla celebrazione eloquente o ad una polemica acida e cupa (priva dell’impeto piú giovanile e lieto del combattente di Giambi ed Epodi) e perfino a certe gravi immagini estetizzanti che sembrano sfiorare preannunci dannunziani, come quella di Roma «nave lanciata al dominio del mondo». Elementi che si associano spesso negativamente al martellare troppo insistente sul ritmo e sulla parola, con un certo che di faticoso e con una prolissità, a volte, di versi poco tenaci nella memoria del lettore o a volte con finezze preziose (la foresta subacquea di Alle fonti del Clitumno) ma troppo fine a se stesse.

E tuttavia è innegabile l’ulteriore acquisto che il Carducci veniva facendo nelle Barbare di nuovi modi espressivi, di un impasto linguistico sempre piú originale, con punte che toccano i margini di poetiche piú moderne, pur nell’involucro classicistico a lui peculiare e nel rifiuto di adesione alle poetiche parnassiane e decadenti che non va mai dimenticato contro certi frettolosi inquadramenti del tardo Carducci nel vero e proprio decadentismo. E cosí ugualmente occorre precisare che nelle Barbare e particolarmente nella loro direzione piú grave ed elegiaca, meditativa, a cui il verso piú approfondito nelle sue possibilità di risonanza pensosa e dolente, il linguaggio piú brunito e «fosco» (il colore che sempre piú vi prevale) sembrano inclinare di per se stessi, gli elementi lirici carducciani sempre piú sviluppano le loro componenti di nostalgia e di robusta ed inquieta sensibilità malinconica.

E ad esse ben corrisponde la lentezza echeggiante, la voce che scandisce e approfondisce il sentimento del passato irrecuperabile, la tensione a beni perduti, l’animo vibrante fra sogni e delusioni, fra la sospirata virile serenità e la sensazione dolorosa di esserle impari, sicché la nuova rappresentazione della realtà, di cui il Carducci sa ora rendere con nuovo vigore aspetti e figure (ad es. la «britanna» e il «ciociaro» di Dinanzi alle Terme di Caracalla), assume un’intonazione sempre piú fonda di vitalità piena, ma intrisa radicalmente di malinconia.

Ed ecco, su questa direzione piú congeniale, il nuovo gruppo (fra ’75 e ’77) di alte poesie che costituiscono i veri risultati di quel volume, anche se tanto insidiati da cadute e sbalzi di tono, ché la tensione poetica delle Barbare è particolarmente, per quanto sopra si è detto, esposta a nuovi pericoli di enfasi, di illustrazione erudita, e l’equilibrio espressivo appare spesso difficile e breve rispetto alla volontà di costruzioni piú complesse. Sull’apertura piú torbida di Ruit hora, col suo significativo capovolgimento di un paesaggio sereno in una disperata tensione funereo-amorosa

(Vedi con che desio quei colli tendono

le braccia al sole occiduo:

cresce l’ombra e li fascia: ei par che chiedano

il bacio ultimo, o Lidia),

si succedono le maggiori poesie di questa fase.

Anzitutto Alla stazione in una mattina d’autunno, specie nel suo inizio, forte quadro piú espressionistico che impressionistico, in cui il leitmotiv della separazione è intensificato, nel suo sentimento di dolorosa fatalità, da tutto un coerente paesaggio livido e sofferto, da una intensa suggestione di luci sbattute e meste entro forme di violenta audacia linguistica («i rami stillanti di pioggia / sbadigliando la luce su ’l fango»), da quelle immagini allucinate ed ossessive di preparativi della partenza del treno che paion alludere alla tormentosa, lenta preparazione di un misterioso supplizio:

Van lungo il nero convoglio e vengono

incappucciati di nero i vigili,

com’ombre, una fioca lanterna

hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre

rintocco lungo: di fondo a l’anima

un’eco di tedio risponde

doloroso, che spasimo pare...

Aura tragica che a sua volta intensifica, in contrasto, la radiosa, struggente visione dell’amata immagine femminile e del «giovine sole di giugno» in cui essa era apparsa la prima volta al poeta.

E poi Mors con il nuovo contrasto severo (e come echeggiante di cupa sonorità wagneriana[42]) fra le immagini degli «anni lieti crescenti» dei fanciulli stroncati dall’epidemia e quella dei superstiti che «invecchian ivi ne l’ombra», nel loro desolato dramma totalmente terreno, in attesa del ritorno della furia distruttrice della morte:

Ahi tristi case dove tu innanzi a’ vólti de’ padri,

pallida muta diva, spegni le vite nuove!

Ivi non piú le stanze sonanti di risi e di festa

o di bisbigli, come nidi d’augelli a maggio:

ivi non piú il rumore de gli anni lieti crescenti,

non de gli amor le cure, non d’Imeneo le danze:

invecchian ivi ne l’ombra i superstiti, al rombo

del tuo ritorno teso l’orecchio, o dea.

E poi, dopo la fantasia piú nostalgico-cromatica di Nella piazza di San Petronio, l’ode Dinanzi alle Terme di Caracalla nel cui quadro iniziale l’epica triste-grandiosa e il gusto realistico di en plein air si incontrano con un eccezionale risultato di poesia classico-moderna:

Corron tra ’l Celio fosche e l’Aventino

le nubi: il vento dal pian tristo move

umido: in fondo stanno i monti albani

bianchi di neve.

A le cineree trecce alzato il velo

verde, nel libro una britanna cerca

queste minacce di romane mura

al cielo e al tempo.

Continui, densi, neri, crocidanti

versansi i corvi come fluttuando

contro i due muri ch’a piú ardua sfida

levansi enormi.

«Vecchi giganti – par che insista irato

l’augure stormo – a che tentate il cielo?»

Grave per l’aure vien da Laterano

suon di campane.

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,

grave fischiando tra la folta barba,

passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,

nume presente.

A questo tono di epica triste rispondono anche, nel loro centro piú intenso, Miramar e Per la morte di Napoleone Eugenio e, mentre nella singolare e confusa meditazione Pe ’l Chiarone da Civitavecchia il Carducci par difendere, con difficoltà, dalla piú violenta attrazione di un nordico romanticismo macabro la sua aspirazione al classicismo e all’umanesimo «solare», il suo tema di contrasto, nelle forme piú genuine e personali, seguita ad esprimersi nell’elegia sepolcrale di Fuori alla Certosa di Bologna, che raccogliendo le precedenti meditazioni cimiteriali (il poeta la disse un’elegia fatta su di «un pensiero antico», e proprio sulla coscienza di un motivo persistente e lungamente perseguito nacque allora il titolo di Pianto antico[43]) avvia un nuovo, breve e compatto ciclo poetico tutto imperniato sul pensiero della morte. Che lo ossessionava proprio come «il pensiero della negazione dell’essere», dell’«esclusione», come dice in una lettera del 27 gennaio 1882 alla Bergamini[44], destinataria di altre lettere di questo periodo[45] che documentano, con impeti e abbandoni convulsi di grande intensità, un senso crescente di solitudine tetra e il continuo affiorare dell’immagine della morte e dei morti[46] nella loro fisica pena di esclusione dalla primavera e dal sole: «Chi dice a Lei, signora Adele, che i morti non sentono anche sotterra? Quando la primavera fiorisce, essi forse dànno un sussulto, e sentono il germinare della terra intorno le loro tombe e in mezzo alle ossa, e ripensano al sole...». Questo motivo è involto in una certa grave aura voluttuosa in quella poesia e poi in Su Monte Mario (con quei «serti di rose» che infradiciano intorno ai teschi, con quell’invito dei morti ai mortali a riempire con l’«eternità di amore» la breve ora terrena nella prima, e con l’immagine gonfia e facile dell’estremo incontro dell’ultimo uomo e dell’ultima donna sulla terra ghiacciata, nella seconda[47]) fra i residui del pericolo estetistico, nato con le Primavere elleniche, e una vaga velleità di sviluppo cosmico a cui il Carducci non era portato.

Ma quel motivo ossessivo si enuclea tanto piú intimo e sicuro nelle brevi, intense elegie dell’81: Ave e Nevicata. E proprio quest’ultima è per me l’acme del ciclo e uno degli esiti interi ed alti della poesia carducciana[48].

Lenta fiocca la neve pe ’l cielo cinerëo: gridi,

suoni di vita piú non salgon da la città,

non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,

non d’amor la canzon ilare e di gioventú.

Da la torre di piazza roche per l’aëre le ore

gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dí.

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati:

gli amici spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –

giú al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.

Dove il motivo a lungo meditato, la suggestione di versi di Hölderlin a lungo cullati nella memoria dolente, il definitivo accordo di parole e immagini tematiche, come «cinereo» o come l’immagine del paesaggio muto sotto la neve, cosí a lungo insistenti nelle lettere e nelle poesie precedenti, si risolvono perfettamente in poesia insieme all’eco squillante, negata e presente di un sentimento di vitalità («d’amor la canzon ilare e di gioventú»), e il colloquio coi morti si realizza perfetto e suggestivo fra la violenza ferma dell’immagine tempestosa («picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati») e il gesto brusco e patetico con cui il poeta invita il cuore a placarsi, ad accettare il riposo nel silenzio e nell’ombra.

E intorno a questa poesia cosí intensa, vibrante e squadrata, in questa alta zona di intimità senza enfasi, di autobiografia trasposta totalmente in lirica, le poesie del ricordo malinconico e rasserenato possono svolgersi come con maggiore libertà e agio sentimentale e fantastico, fino a Sogno d’estate che reinterpreta nella dimensione propizia del sogno, con un potere evocativo piú luminoso e una forza piú lieve e suggestiva, il recupero della fanciullezza e dei ricordi piú cari nella «piaga ove tra note forme rivivono gli anni felici». Che supera certo per compiutezza e superiore distacco l’impeto evocativo, piú denso e selvaggio, dell’interessantissimo frammento di sonetto dell’81:

Quanto azzurro d’amori e di ricordi,

gin, infido liquor, veggo ondeggiare

nel breve cerchio onde il mio gusto mordi:

o dolci selve di ginepri, rare,

a cui fischian nel grigio ottobre i tordi

lungo il patrio, selvaggio, urlante mare![49].

Cresceva in questa estrema maturità del Carducci la capacità di una visione piú interiore, segreta, allusiva persino, quale è quella che sorge, senza ombra di peso e di sforzo, nei sogni disegnati e puri di San Martino e soprattutto di Visione, con quel finale cosí sorprendente per chi non abbia bene intuito le risorse della piú intima sensibilità carducciana:

E al cuor nel fiso mite fulgore

di quella placida fata morgana

riaffacciavasi la prima età,

senza memorie, senza dolore,

pur come un’isola verde, lontana

entro una pallida serenità[50].

Che parrebbe anche l’attacco diretto dell’ultima stagione poetica di Rime e ritmi (quella della poesia piú schietta e intima di quell’ultimo volume) se fra ’84 e ’86 un altro gruppo di poesie (in Barbare e in Rime nuove) non ci presentasse ancora un particolare momento della dinamica carducciana fra un vasto ed energico moto di affermazione della pienezza vitale, espressa nel quadro epico-storico e nella diretta rappresentazione del suo sentimento romantico-naturalistico della vita, e un nuovo e piú intenso sviluppo dei temi di nostalgia e di dolorosa malinconia fino alla sintesi dei due poli essenziali nel nodo indissolubile di luce-buio, di vita-morte, del fascino supremo della vitalità dolorosamente esaltato e velato dall’inseparabile immagine dell’annullamento e della morte.

Penso anzitutto a Canto di marzo (con la vicinanza piú preziosa di Vere novo), la «barbara» dell’84 che costituisce la punta estrema di questa piú forte e ultima poussée di epica romantico-naturalistica, di vitalismo realistico[51] che si espande e si tende nel paragone della terra ribollente di umori e di succhi e della incinta palpitante sul talamo, e nella sua rappresentazione diretta, tutta aggrumata di colori a macchie intense, riboccante di una vitalità quasi sensuale, che unifica, in simpatia di tensione, come un soffio caldo di fecondità, i «fior che si risvegliano», «i germi che si movono e le radici che bramose stendonsi» penetrando fino alle «ossa dei sepolti» da cui si sprigionano «i germi de la vita e de gli spiriti» e fa scattare, con un movimento di estrema energia, le immagini di entità naturali

(ecco l’acqua che scroscia e il tuon che brontola:

porge il capo il vitel da la stalla umida,

la gallina scotendo l’ali strepita,

profondo nel verzier sospira il cúculo

ed i bambini sopra l’aia saltano)

e gli impeti dell’appello finale al pieno dispiegarsi di tutti gli istinti vitali fino al grido selvaggio: «irrompete a la guerra, o desii torbidi». Con una forza turgida che par superare il limite della rappresentazione carducciana, energica ma nitida, e che, in questo tardo scoppio di una pienezza cosí aggressiva, apre uno spiraglio interessante su questo nuovo momento dell’umanesimo vitalistico e realistico carducciano opposto ora, piú che al vecchio ascetismo, a concezioni troppo educate, umanitarie, pacifiste e puritane.

Tensione estrema verso un possesso totale della realtà, cui corrisponde, su di un piano piú estroso ed idillico, il realismo della coeva poesia All’autore del Mago

(da gli scopeti de la bassa landa

pigro il pizzaccherin si rizza a volo:

con gli strilli di chi mercé dimanda

levasi delle arzàgole lo stuolo,

stampando l’ombra su per l’acqua lenta

ove l’anguilla maturando sta...),

e che presto si risolve nel piú pacato equilibrio dell’idillio epico-storico del Comune rustico, in cui, al di là della sapienza ed efficacia illustrativa-narrativa di Ça ira, gusto della storia e del paesaggio si fondono, in un nitido e suggestivo sogno di realtà irrorata di dolce nostalgia, in un’arte piena e squisita:

E le rosse giovenche di su ’l prato

vedean passare il piccolo senato,

brillando su gli abeti il mezzodí...

Arte che par di nuovo guidare alle caratteristiche dell’ultima stagione poetica di Rime e ritmi. Ma non prima che, a contrasto, dopo l’animato quadro nostalgico di Traversando la Maremma toscana, entro il quale il Carducci coglie l’aspetto piú psicologico del suo spirito preso fra «odio e amore», il ciclo abbia trovato lo struggente suggello neoclassico-romantico di «sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero» di Presso l’urna di Shelley, e quello della malinconia della luce in Ballata dolorosa, suprema scoperta della sensibilità carducciana nella impostazione del suo lirico contrasto in un nodo cosí intenso e profondo.

Dopo, esaurita, in questo ciclo, la forza piú intera, si aprirà l’ultimo tempo poetico di Rime e ritmi, il cui vero segno è la grazia malinconica e pacata, mesto-sorridente di colori tenui e limpidi, di disegni delicati e puri. Una direzione di poesia piú esile, ma genuina in cui il Carducci senile par tutto ripiegarsi (e magari fosse stato cosí!) enunciando proprio all’inizio del suo ultimo libro una vera e propria poetica della «malinconia».

Come la impostano i lievi, pacati versi Alla signorina Maria A., del 1887, posti ad apertura di Rime e ritmi:

O piccola Maria,

di versi a te che importa?

Esce la poesia,

o piccola Maria,

quando malinconia

batte del cor la porta.

O piccola Maria,

di versi a te che importa?

Non piú proposte di poesia impetuosa e difficile, posseduta con il gusto aggressivo del Preludio delle Barbare o esercitata nel gesto robusto ed enfatico del «grande artiere» di Congedo, ma un’immagine patetica, casta e smorzata, in cui la nascita della poesia è configurata in un fluire quasi involontario, sollecitato dal tocco discreto della malinconia sul cuore, che non è piú il «vil muscolo nocivo» di Intermezzo e neppure piú l’«indomito cuore» di Nevicata, ma semmai il «vecchio cuore» che avrebbe composto i suoi ultimi sussulti, il suo estremo bisogno di amore nella mesta e gracile grazia della poesia Ad Annie.

Poesia senile, consapevolmente sentita dal Carducci come l’eco tutta interiore e sommessa di quella fervida della gioventú (l’eco che «ne l’animo chiuso / solitaria ne mormora» in Nel Chiostro del Santo), ma ancora poesia che in colori piú tenui, in ritmi d’intimità mormorata e quasi sfioranti una lentissima prosa poetica, con uno sgorgare piú lento ed avaro, continua la direzione di Visione e di San Martino e ben resiste, appunto come ulteriore anche se raro sviluppo di sincere risorse poetiche e artistiche, al giudizio troppo facile di chi volesse considerarla duramente nel segno di una generale involuzione o come puro esercizio formalistico di un artista privo ormai di vera ispirazione.

Certo calata era la intera pienezza della personalità carducciana, che veniva ora come a dividersi – senza piú il ricambio dinamico di una volta – fra questa piú sottile, rara e segreta vita poetica (all’insegna della «malinconia», di una grazia piú pacata di affetti intimi e poco ambiziosi, di una visività che pur sapeva creare i paesaggi alpini di fronte ai quali l’animo e la fantasia erano ancora sensibili e inventivi) e il raffiorare di un’ultima velleità grandiosa, in cui la componente retorica mai vinta e troppo confusa con l’ansia della poesia grande, della missione civile del vate, sfogava i suoi ultimi impeti credendo di servire un concetto piú alto di poesia e quel «dovere umano» di cui appunto il Carducci parlava in una lettera di questo periodo[52] contrapponendolo alla poesia creata solo per «distrarsi» e della cui centralità nel suo animo senile aveva avuto acuta, ma parziale coscienza, troppo presto ripreso dalle tentazioni della lirica «alta» e dai suoi impegni di poeta ufficiale dell’epoca, dai suoi umori e dalle sue passioni politiche.

Ma, al di là di questa sua incertezza di poetica corrispondente anche alla sua crescente collaborazione con la difesa e l’affermazione della nazione-stato e del gruppo dirigente a cui sempre piú saldamente egli apparteneva, proprio sulla diversità di queste due tendenze bisogna insistere per distinguere quella che è un’evoluzione ancora di poesia e quella che è solo involuzione di eloquenza e che perciò – tanto piú nel confronto con la maggiore purezza già conquistata – ci colpisce con i suoi contenuti non redenti poeticamente e quindi oggetto di discussione e valutazione non-estetica del loro significato entro una fase della nostra storia civile.

Non che al Carducci si voglia negare di avere sentito in proprio e sinceramente gli ideali nazionali unitari in forme sempre piú conservatrici, che lo conducevano ora a condannare con tanta durezza (con l’elogio della maniera forte crispina e sin con l’invocazione, ahimè, delle «legnate» contro i denigratori dell’esercito[53] e magari con l’invocazione di una guerra offensiva per la difesa dell’Italia circondata da potenze ostili) insieme all’antico avversario vaticanesco, saldo perno del suo vigoroso laicismo, il socialismo «antinazionale» e il «settarismo» repubblicano. E naturalmente tanto meno si negherà la personale forza morale, il valore etico degli sdegni contro la corruzione, l’affarismo, la viltà delle astuzie della bassa politica[54] che il Carducci viveva entro quelle posizioni nazionalunitarie anche come attiva religione del costume risorgimentale. Ma ciò che si nega è che questi ideali divenissero in lui temi lirici, tanto sono discordanti ormai con la direzione poetica in cui il suo animo viveva la sua ultima, squisita stagione poetica, tanto essi immediatamente si dispongono su di un piano pratico di celebrazione esortativa e polemica.

Un piano, una disposizione in cui egli raccoglieva tutti i peggiori moduli della sua eloquenza, con i «Salve» retorici, le invocazioni enfatiche di «Italia, Italia», le sfilate di ricordi storici che non divengono miti e nuclei poetici, l’orgia delle maiuscole, e persino con un frequente ricorso alla forma retorica delle «visioni» scenografiche che mostra un’innegabile presenza montiana nelle cosiddette «grandi odi» celebrative del ’90-98.

Basti citare in proposito Piemonte, con la visione degli spiriti risorgimentali che accolgono l’ombra di Carlo Alberto e con quella del «popolo de’ morti» che raccoglie le proprie ossa proprio come in un celebre passo della montiana Visione di Ezechiello (e poi la visione della «sacra legion degli spiriti» in Cadore o quella consimile in Bicocca di San Giacomo), per non ricordare, ancora in Piemonte, la tipica autoesaltazione montiana del «vate d’Italia alla stagion piú bella» o l’illustrazione celebrativa col facile modulo di antitesi della «regal Torino» e di «Asti repubblicana».

Sarebbe davvero triste per noi se l’immagine dell’ultimo Carducci coincidesse interamente con quella offertaci da queste odi, in cui rari e quasi inattesi sono momenti poetici piú genuini e macchinose e schematiche le stesse costruzioni una volta troppo celebrate; o anche, diciamo pure, con quella risultante dalla fiacca ed incerta La chiesa di Polenta in cui un vago spiritualismo senile cerca una consonanza di fede deistico-massonica con forme di religiosità tradizionali, pur attaccando contemporaneamente l’aborrita religione semitico-ascetica e la «lupa vaticana» oggetto di nuove violente invettive nell’ode Alla città di Ferrara[55].

Ma ben altro valore han per noi le vere, anche se rare, poesie di Rime e ritmi. In cui pare anzi che lo sdoppiamento accennato abbia liberato da ogni pericolo retorico gli angoli ancor poeticamente vivi dell’animo del Carducci: ancor vivi e capaci di nuova poesia, con aggiunte autentiche al suo vero corpus poetico, quali sono i toni di colloquio piú sussurrato e mesto-ilare della poesia Ad Annie, i piccoli quadri a tenue e perfetto disegno e colore di In una villa, di Mezzogiorno alpino, dell’Ostessa di Gaby

(e verde e fosca l’alpe, e limpido e fresco è il mattino,

e traverso gli abeti tremola d’oro il sole)

o quel meditare e vedere e fantasticare di Courmayeur (nelle Barbare, ma di questi ultimi anni), e soprattutto la incantevole trama fiabesca con toni quasi di realismo magico dell’Elegia di Monte Spluga:

E vidi su gli abeti danzar li scoiattoli, e udii

sprigionate co’ musi le marmotte fischiare.

E mi trovai soletto là dove perdevasi un piano

brullo tra calve rupi: quasi un anfiteatro

ove elementi un giorno lottarono e secoli. Or tace

tutto: da’ pigri stagni pigro si svolve un fiume:

erran cavalli magri su le magre acque: aconíto,

perfido azzurro fiore, veste la grigia riva.

E ancora una volta qui si incontrano gli elementi del carducciano contrasto tematico e tonale (il «suono di primavera su ’l tepido aprile dormente» e i «piani fumanti di tedio»), ma in un’aura piú sottile e sognata; ed essi ancora una volta si adunano in quel patetico e originalissimo congedo dalla poesia e dalla vita, sentita come coincidente con la poesia, che è Presso una Certosa con il suo attacco limpido e malinconico, in cui i colori vibrano di un ultimo accordo senza impeto («Da quel verde, mestamente pertinace tra le foglie / gialle e rosse de l’acacia, senza vento una si toglie»), con il suo finale che conclude in modi di assoluta intimità l’ultimo incontro di luce e buio, di vita e morte, di ombra e poesia nell’estremo anelito di una fede poetica e di un’aspirazione vitale[56] che, nella sua maggiore purezza, appunto con quella coincise:

A me, prima che l’inverno stringa pur l’anima mia

il tuo riso, o sacra luce, o divina poesia!

Il tuo canto, o padre Omero,

pria che l’ombra avvolgami!


1 Questo saggio e i capitoli carducciani che seguono sono stati scritti nel 1957, nell’anno del cinquantenario carducciano. In quell’anno sono usciti molti altri saggi carducciani che porterebbero a discutere diversi motivi e scelte o a sottolineare incontri entro un bilancio di risultati effettivi di quel centenario. Preferisco invece lasciare ai miei saggi il loro carattere originario di diretto intervento sul ripensamento critico, di varia consistenza e necessità, provocato dal cinquantenario e quindi limito i riferimenti bibliografici a quelli effettivamente presenti al momento in cui scrissi questi saggi.

2 Cfr. ad es. la lettera a Lidia dell’11 febbraio 1873 (Epistolario, ed. naz., VIII, pp. 135-136).

3 A questa immagine del Carducci, che certo sarebbe piú errato capovolgere in un’immagine di «decadente», dette soprattutto vigore l’interpretazione crociana, specie nella fase in cui il grande critico la contrappose polemicamente nella sua sanità classica a tutta la nuova poesia novecentesca (accettando magari il dubbio assenso di un Maurras). E io stesso nel mio giovanile studio sulla Poetica del decadentismo, del 1936, finii per accettarla troppo facilmente, in una diagnosi della poesia di secondo Ottocento in cui mi premeva soprattutto di sottolineare la novità e le radici europee della nuova poetica italiana da cui sentivo lontano il Carducci, anche in reazione alla tesi del Petrini cosí ricca di spunti rinnovatori, ma non accettabile nella sua interezza. Diagnosi che ora rivedrei per il Carducci in maniera piú duttile, dando sempre alla esperienza carducciana un valore non centrale nello svolgimento verso il decadentismo, mantenendo ben chiara la fedeltà carducciana alla tradizione e a ideali ottocenteschi, ma tanto piú animando la ricchezza di sensibilità e di inquietudine di quella esperienza, tanto piú articolando la singolare «via» carducciana nella storia culturale e poetica del secondo Ottocento, e soprattutto dando maggior valore ai fermenti romantici e alla vibrazione lirica della sua vera poesia (come già venni facendo in alcuni commenti di poesie carducciane nel III vol. dell’antologia Scrittori d’Italia, Firenze 1946, in una posizione tanto piú aperta ed attenta agli elementi schiettamente poetici del Carducci).

4 Un’indicazione dei dissensi ancora vivi o possibili in lettori delle generazioni ultime si può trovare nella prefazione di F. Leonetti al suo lavoro bibliografico Carducci e i suoi contemporanei, Firenze 1955. E si noti che la diffidenza, la difficoltà di accettazione del Carducci furono, e spesso sono, anche di ambienti pur molto sensibili alle indicazioni di critici come Serra, Cecchi, De Robertis, che, come si sa, hanno avuto atteggiamenti valutativi tutt’altro che negativi di fronte al Carducci. Per gli «umori» anticarducciani della mia generazione si veda l’interessante saggio di U. Morra, Carducci e i giovani, in «Letteratura», 1938. Ma uno studio ex professo del carduccianesimo e dell’anticarduccianesimo fino ad anni recenti sarebbe molto interessante e ricco di implicazioni culturali ed etico-politiche importanti cosí per tutta la nostra storia civile, come per quella delle poetiche novecentesche.

5 Si veda in proposito N. Sapegno nel III vol. del Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze 1947, p. 319.

6 Quella meditazione poetica ha indubbiamente qualcosa di faticoso e di appesantito da troppi echi letterari (fra il Goethe-Monti di un passo panteistico-naturalistico degli Sciolti al Chigi e l’Infinito leopardiano), ma il suo nucleo è tipicamente carducciano e qua e là fortemente significativa è comunque la versione tutta «fisica», cosí carducciana, dello schema dell’Infinito: «Quando, come non so, quasi dal fonte / d’essa la vita rampollommi in cuore / il pensier de la morte, e con la morte / l’informe niente; e d’un sol tratto, quello / infinito sentir di tutto al nulla / sentire io comparando, e me veggendo / corporalmente ne la negra terra / freddo, immobile, muto, e fuor gli augelli / cantare allegri e gli alberi stormire / e trascorrere i fiumi ed i viventi / ricrearsi nel sol caldo irrigati / de la divina luce, io tutto e pieno / l’intendimento de la morte accolsi; / e sbigottii veracemente. Anch’oggi / quel fanciullesco imaginar risale / ne la memoria mia; quindi, sí come / gitto di gelid’acqua, al cor mi piomba».

7 Il «velo nero» e «la pallida faccia» saranno il ricordo di Lidia, ma già nel 1881 il «velo nero» aveva assunto un valore di concreto simbolo funebre per la poesia carducciana: «un velo nero / copre la terra che lontan fioriva, / strillano augei palustri in su la riva: / ed io poco piú amo e nulla spero» (Dietro un ritratto, in Rime nuove, II, XXXV). Per una piú ampia spiegazione del significato di questa poesia rimando alle pp. 56-63 di questo volume [qui a pp. 356-361].

8 La definizione di Carducci poeta funebre è stata recentemente proposta dal Russo in un saggio, Carducci senza retorica, che è una delle parti piú interessanti del volume omonimo (Bari 1957).

9 «Berchet tutto a mente a 11 anni» (Appunti autobiografici, in Opere, XXX, p. 10).

10 Cfr. dedica-prefazione delle Rime di San Miniato, in Opere, V, p. 206.

11 Il tema del fratello suicida si presenta anzitutto in una lettera al Targioni-Tozzetti del 10 novembre 1857 (Ep., I, pp. 281-282) che atteggia quella morte volontaria in forme ortisiane-leopardiane e in un’aura classico-plutarchiana, e la risolve in un conforto ulteriore alla religione dei classici, al contrasto con il presente corrotto, ad un mito eroico-pessimistico rafforzato dalla «filosofia leopardiana» ritenuta «la sola vera e naturale delle anime buone e forti». Posizione che ritorna dominante nella canzone del dicembre del ’57, Alla memoria di Dante Carducci (Juvenilia, IV, LXV), e nei due sonetti dello stesso anno (Juv., I, XVIII e XIX). Ma già nella stessa canzone il motivo piú validamente carducciano affiora nel contrasto fra la vitalità del giovane fratello, la sua fruizione della natura nei suoi aspetti essenziali e la sua morte («E di felice / vita fioria natura, e la pendice suonava / a’ canti e ridea ’l piano al sole, / quando dicesti l’ultime parole»), e si associa ad un piú personale riferimento di contrasto fra desiderio di vita e solitudine sdegnata dell’amara realtà (specie nel sonetto XXIII del I di Juv., del febbraio ’58), per sistemarsi nel sonetto citato nel testo. Cammino molto significativo di un sentimento e motivo originale e centrale entro la difficile via della letteratura e delle velleità filosofiche e morali del giovane Carducci.

12 Ed è nel periodo di Levia Gravia che il Carducci riprese e rielaborò amorosamente tante di quelle poesie dei suoi primissimi anni che non aveva raccolto, per il loro carattere piú apertamente romantico (oltreché per la loro immaturità tecnica), nelle Rime di San Miniato. Ora guardava con nuova simpatia a quella produzione precedente alla fase dello «scudiero dei classici»: simpatia inerente anche alla crescente nostalgia per la zona poetica della prima adolescenza, a cui egli cercava di attribuire un nuovo decoro formale con la rielaborazione che ne venne facendo (specie verso il ’65-66) e che comunque veniva, nell’edizione, retrodatata alle prime stesure, con quegli effetti, a volte, sconcertanti per il lettore ignaro, che giungono piú tardi al caso limite di Primavera cinese (Juv., II, LXIX) la cui redazione definitiva (dell’83) è datata 1853, mentre essa conserva della prima stesura poco piú che il puro titolo.

13 Ep., II, p. 246.

14 Ep., II, p. 298.

15 Ep., II, p. 351.

16 Ep., III, p. 31.

17 Lettera al Pelosini cit., del 27 febbraio ’62.

18 Ep., III, p. 139.

19 Ep., III, p. 122.

20 Ep., III, p. 27.

21 Ep., IV, p. 9.

22 Ep., IV, p. 95.

23 Nel cui schema di affermazione e di polemica pur cosí superficiale culturalmente ed esteticamente («chitarronata volgare» e «birbonata utile» lo chiamò poi il Carducci, che ne rilevava l’efficacia etico-politica e la bruttezza chiedendo agli italiani il singolare onore di un monumento, ma di un monumento «ben brutto») occorre però constatare la presenza del tema di contrasto in una versione piú esterna e pratica. Con quell’inno il Carducci portava una nuova voce illuministico-materialistica nella tematica democratico-massonica (donde le polemiche da parte della massoneria spiritualistico-mazziniana) con elementi di piú facile appello ai gruppi popolari anarchici che lo adottarono finché nuove forme di organizzazione e di lotta superarono quel simbolo piú borghese e il semplice obbiettivo antiautoritario e anticlericale (si ricordi il ridicolo della libera pensatrice con la sua bandierina satanica fra i braccianti, nel Mulino del Po di Bacchelli). Con quell’inno il Carducci superava anche l’angustia puramente classicistica e letteraria del giovanile Brindisi (Juv., II, XXIX) che si rivolgeva a un piccolo gruppo di letterati. Quanto alla posizione del Carducci nella Massoneria italiana (posizione prima spostata sulle linee piú, avanzate, poi su quelle piú conservatrici e crispine), porta nuova luce il recente volumetto di M. Vinciguerra, Carducci uomo politico, Pisa 1957, su cui rimando al cap. III di questo volume.

24 Nel quale la chiusa riporta ad un nuovo riferimento personale, cosí consono alla irrequietezza e scontentezza di quegli anni, il contrasto finale del sonetto del ’58. «Tra ignavi studi il tempo or mi si perde / nel dispetto e l’oblio, ma lui ventenne / copre la negra terra e l’erba verde».

25 A questa specie di poesia sulla poesia, di poesia che nasce nell’amore della poesia altrui (sollecitata anche da certi aspetti del Monti, come è evidente nei Poeti di parte bianca nel loro richiamo agli sciolti alla marchesa Malaspina), il Carducci era anche portato da quegli studi critici (e specialmente, in questi anni, sul Poliziano e sul Petrarca) che troppo facilmente egli disprezzava in questo periodo come faticosi e lontani dall’attività poetica.

26 A. Omodeo, L’età del Risorgimento italiano, ESI, Napoli, 1948, 6a ed., p. 439.

27 Giambi ed Epodi, 1882, in Opere, XXIV, p. 170. L’autocritica carducciana dei suoi libri di poesia (si veda anche quella su Levia Gravia nello scritto omonimo in Opere, XXIV, pp. 227 ss.) è assai interessante inoltre per il rilievo dato alle ragioni storico-politiche dei suoi atteggiamenti in poesia, anche se in questi scritti tardi prevale una certa volontà di unificazione e di coerenza alla luce del suo ideale unitario-nazionale, che finisce per smussare troppo le punte piú vive del periodo «repubblicano» e ribelle, un po’ sulla linea di quel libretto del Panzini, L’evoluzione di G. Carducci, Milano 1894, che piacque al Carducci (cfr. lettera al Chiarini del 20 settembre 1895, Ep., XIX, p. 140) e che aggrava in senso fortemente nazionalistico l’evoluzione politica carducciana e l’innegabile spinta centrale del suo ideale di unità e dello sviluppo di una esigenza risorgimentale di fronte alla quale quelle della libertà e della democrazia andarono non scomparendo, ma certo fortemente attenuandosi nell’ultimo Carducci.

28 Risalgono al ’70-71 le prime versioni da Heine e sono del ’71 le Conversazioni e divagazioni heiniane. Nel 1871 il Carducci chiudeva cosí il suo canone dei poeti tedeschi: «Quel Heine fra i versificatori molti della Germania è poeta vero: lui e Platen; dopo Goethe e Schiller. E basta» (Ep., VII, p. 41). Poco dopo aggiungeva Uhland (ibid., p. 105). Per Hölderlin cfr. la nota 34 a p. 24 e le pp. 48-50.

29 Ep., X, p. 282.

30 Cfr., ad es., Ep., XI, p. 32.

31 Ep., VII, p. 87.

32 Ep., VIII, p. 8.

33 Ep., VIII, p. 336.

34 Ep., X, p. 134.

35 È il verso ultimo di Griechenland, «Denn mein Herz gehört den Toten an», che il Carducci tradusse «Perché tutto co’ morti il mio cuor è» nella frammentaria versione di quella poesia (agosto-settembre 1874). Tutto il finale di quella versione (Opere, XXIX, p. 360) è importantissimo per questa assimilazione-sviluppo di un tema hölderliniano nella meditazione poetica del Carducci ed è evidente la sua suggestiva presenza fino alla soluzione originalissima di Nevicata, in cui venne a confluire con piú forza lo stimolo di altri versi di Hölderlin da Der Tod fürs Vaterland tradotti in prosa presumibilmente nel 1880 (Opere, XXIX, p. 361): «A voi, o cari, io vengo, che ad amare m’insegnaste e a morire, a voi là giú» («Zu euch / Ihr Teuern! komm’ich, die mich leben / lehrten und sterben, zu euch hinunter!»). Per lo sviluppo di questo motivo in Nevicata rimando il lettore alla interpretazione di quella lirica alla p. 45 ss. di questo volume [qui alle pp. 348-355].

36 Fino a limiti di «languore» di dubbio gusto e contaminazione fra amore e riti religiosi non solo greci, ma cristiani, come spesso avviene nelle lettere a Lidia (cfr. ad es. Ep., VII, p. 272) in cui continua è la lotta fra abbandono e resistenza alla rêverie.

37 Proprio per Primavera dorica il Carducci dice a Lidia: «Questa è la piú nobile e la piú pura, la piú greca poesia che abbia mai fatto. Di piú oso dire che una poesia come questa non la poteva fare che Ugo Foscolo, il Foscolo delle Grazie» (ibid., p. 137). E altrove (Ep., IX, p. 109): «dopo Foscolo io sono da vero l’ultimo figlio de’ poeti eolici». A questo culto rinnovato dei greci (piú che di Orazio come al tempo delle Rime di San Miniato) si associa un crescente senso di «aristocrazia» nella vita e nella poesia (cfr. ad es. ibid., VII, pp. 100 e 138) con un connesso disprezzo per la prosaica vita borghese: «Gli dèi se ne vanno da questo mondo di impiegati e di bottegai» (ibid., XII, p. 230).

38 Cfr. lettera a Lidia del 10 aprile 1872 (Ep., XII, p. 129).

39 Si deve però notare che Faida di comune (la cui prima stesura è del 1875) fu in realtà completata e portata al suo organico esito solo nel 1887.

40 Già nel ’74, durante la maggiore esaltazione neoclassica-pagana, in una lettera a Lidia (Ep., IX, p. 108) il Carducci, scagliandosi contro il cristianesimo distruttore della poesia greca, scriveva: «Ci mancava anche questa, che a noi, greco-latini, nobile razza ariana, dovesse essere infusa una religione semitica, a noi figli del sole, adoratori del sole e del cielo».

41 Motivo già a suo tempo impostato dal De Lollis, che dava cosí un nuovo significato alla formula crociana del 1903 (il commosso poeta della storia) e verificava nelle Barbare lo svolgimento di un Carducci maggiore, e ora sviluppato originalmente dal Russo nel saggio citato che giustifica in chiave di grave elegia lo stesso mito della «romanità» che pure ha indubbie e resistenti componenti chiaramente retoriche, con punte estetizzanti e in rapporto agli ideali nazional-unitari che si venivan consolidando in forme conservatrici. E certo già le Barbare risentono, nelle loro zone piú retoriche, della involuzione politica carducciana, anche se per me non accettabile è la interpretazione di chi come il Sapegno (cfr. il suo saggio Storia di Carducci, in «Società», 1949, poi in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari 1962) fa coincidere con l’involuzione politica una netta involuzione poetica (ripresa anche in altro senso della nota tesi del Petrini) iniziata appunto nelle Barbare. Rapporto da vedere invece in maniera tanto piú duttile e non chiudendo mai gli occhi di fronte alla realtà di poesia presente anche nei periodi tardi del Carducci e alla sua giustificazione piú intima e profondamente personale. Sul motivo della «romanità» e sul suo significato storico negli anni dopo l’unità si veda l’importante capitolo di F. Chabod, in Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, I, Bari 1951. Rimando in proposito al saggio di questa raccolta, Carducci politico. Per la mia discussione con il Sapegno sarà da vedere anche la mia piú generale discussione metodologica circa questo caso di diversa valutazione di un arco di involuzione ideologico-politica non senz’altro meccanicamente corrispondente ad un arco di involuzione poetica, in Poetica, critica e storia letteraria, Bari 19715, pp. 72-74: «Quanto al Carducci tardo mi pare che non sia assolutamente accettabile l’intera equivalenza di involuzione politica e involuzione poetica, che pur si giustifica assai chiaramente per quanto riguarda la poetica di “dovere” e l’eloquenza delle cosiddette grandi odi di Rime e ritmi in rapporto alla perdita di contatto del poeta con le forze piú vive della storia del tempo e al suo nuovo accordo con un preciso settore conservatore della società italiana, con la politica crispina, con il crescere del nazionalismo autoritario e antipopolare. Involuzione verificabile anche in quella componente di spiritualismo senile che sfocia nella vaporosità retorica di Alla chiesa di Polenta.

«Ma al critico che guardi, senza lasciarsi piegare da schemi rigidi e tentanti, alla intera realtà della personalità carducciana nel suo ultimo svolgimento, e alla genesi storica della sua poetica e poesia, non sfuggirà una situazione piú complessa.

«Sull’avvio di un ripiegamento interiore accentuato dalla stessa posizione ufficiale assunta, e configurato nella proposta di una poetica della “malinconia”, l’animo poetico carducciano pur continuava a svolgersi in una direzione di intimità senza enfasi, fra dolente risentimento esistenziale (a cui si legano alcune delle liriche piú alte del Carducci e in un periodo in cui la involuzione politica era già fortemente avviata) e visione fresca e nuova di paesaggi e figure, a cui contribuisce a suo modo, in quel che ha di piú levitante ed enigmatico, la stessa vibrazione piú sommessa e meditativa dello spiritualismo cosí prevaricante in retorica quando funziona nella direzione della poetica falsamente grandiosa e ufficiale del poeta vistoso e fastidioso dell’età crispina e umbertina.

«E proprio in questa specie di sdoppiamento, sulla via piú sensibile e autentica di un riscatto dei suoi moti piú intimi in una direzione assecondata dal meglio delle sue forze ed esperienze artistiche, il Carducci si troverà a collaborare, pur entro limiti storici di tardo romanticismo piú che di decadentismo, a nuove forme di tensione poetica, a elementi vivi della crisi poetica postromantica».

42 Ma piú del Wagner della Morte di Sigfrido che del Tristano e Isotta, a cui pure il Carducci tanto guardò sognando per la sua poesia «barbara» una specie di «wagnerismo greco» (cfr. Ep., VIII, p. 358). E cfr. la lettera alla Gargiolli del 13 marzo 1883 (ibid., XIV, p. 125), con i giudizi entusiastici sulla musica di Wagner, sulla sua «grandiosità epica straziante».

43 Come ha indicato, sulla base di una lettera con cui il Carducci inviava al Chiarini l’elegia Fuori alla Certosa di Bologna (11 settembre 1879, Ep., XII, p. 161: «Ti mando un’elegia fatta sur un pensiero antico...»), Manara Valgimigli, in Carducci allegro, Bologna 1955, pp. 42-43. All’ultima strofa di Pianto antico risponde soprattutto l’ultimo distico dell’elegia: «Freddo è qua giú: siamo soli. Oh amatevi al sole ecc.».

44 Ep., XIII, p. 245.

45 Cfr. quella del 24 novembre 1881, Ep., XIII, pp. 206 ss.

46 Confusa con quella di Lidia da poco scomparsa e separata per sempre «dal mondo vivente, dall’aria, dal sole», come dice dopo la sua sepoltura (Ep., XIII, p. 89).

47 Immagine macabra ispirata, ahimè, da un’illustrazione dell’Astronomia popolare del Flammarion (cfr. M. Valgimigli, Carducci allegro cit., pp. 53-75).

48 Per l’interpretazione di questa lirica rimando alla p. 45 ss. di questo volume [qui alle pp. 348-355].

49 Fu pubblicata nel 1882 nell’«Album del Fracassa», poi in «Pan», 1° febbraio 1934. Passò nel vol. IV delle Opere col titolo di Gin e ginepri.

50 È indubbiamente una delle poesie che piú possono avvicinare il Carducci ad aspetti di nuove poetiche (specie quella pascoliana) e notevole è anche quanto egli scriveva in proposito a Visione, «composta proprio con l’intendimento di conseguire un certo effetto estetico specialmente, se non soltanto, per mezzo d’una variata armonica disposizione di sillabe, di suoni, di cadenze» (Ep., XIV, p. 172). Per una piú ampia considerazione di questa poesia rimando alla p. 64 ss. di questo volume [qui alle pp. 361-364].

51 Con qualche eco della forte attenzione alla poesia di Whitman, di cui il Carducci aveva tradotto in prosa Leaves of Grass dandone nel 1881 un giudizio entusiastico al Nencioni (Ep., XIII, pp. 172-173; e già prima cfr. ibid., XII, p. 184) e contrapponendo quell’epica naturalistica alla «falsa poesia odierna» allontanatasi dai veri grandi poeti, «i sani, i forti» (donde poi gli attacchi alla poesia francese «decadente», cfr. ibid., XIX, p. 26). Spinta di naturalismo e di vitalismo che portava il Carducci a considerare la giovanile America come elemento benefico per la vecchia Europa e per la sua poesia troppo «nervo» e poco « muscolo».

52 Alla Gargiolli, 1° agosto 1888 (Ep., XVI, p. 279).

53 Cfr. lettera del 12 agosto 1891 (Ep., XVIII, pp. 7-8) a proposito degli incidenti causati dal giornale umoristico «Bononia docet» di Podrecca e Galantara e di cui lo stesso re Umberto incolpava gli ufficiali contro il parere del Carducci (ibid., p. 10).

54 Mi piace citare almeno questa affermazione della politica dell’onestà nel discorso agli elettori di Pisa (19 maggio 1886, in Opere, XXV, p. 28): «In cinquant’anni di vita ho esperimentato che la miglior furberia è l’onestà, che la verità è il piú squisito machiavellismo».

55 Non vi è alcun dubbio sulla fedeltà del Carducci alla pratica e agli ideali massonici (ed anzi proprio negli ultimi decenni la sua partecipazione alla direzione stessa della Massoneria italiana, la collaborazione con il Gran Maestro Lemmi – al quale spesso chiede consigli e rivolge ringraziamenti per le sue autorizzazioni anche di atteggiamenti poetici – si fecero piú strette) ed è chiaro che certe accentuazioni (un po’ generiche e velleitarie: «A Dio voglio credere sempre piú», Ep., XIX, p. 23) di spiritualismo e di religiosità degli anni tardi non vanno intese come indizi di un «ritorno» alla fede tradizionale. Basti ricordare in proposito quanto il Carducci scrive al Lemmi nel 1894: «La Chiesa cattolica poi si batte bene specialmente con Dio» (ibid., p. 29). Comunque nella poesia di Rime e ritmi questo crescente spiritualismo ha un doppio effetto: incentivo di retorica nei tentativi di espressione impegnativa e solenne (appunto come nella Chiesa di Polenta), coefficiente di una vibrazione lirica piú sottile e sfumata nelle meditazioni poetiche piú libere e personali.

56 «Oh tanto / breve è la vita ed è sí bello il mondo» (Sant’Abbondio, 1898). «Fa un cenno se ti viene su la mia religione per la grande arte pura, che è stata sempre la mia fede, nella quale morrò. Io non ho avuto al mondo altro senso di religione che per i grandi poeti. E mi sento grande solo in questo e per questo anch’io» (al Nencioni, 1879, Ep., XII, p. 184).